La scomparsa degli artigiani

Riceviamo e pubblichiamo questa lettera toccante.

Salve, mi chiamo Vincenzo Rocca e sono un artigiano falegname di Verona.

In seguito alla crisi che ha colpito la mia attività e in generale tutto il settore ho sviluppato una riflessione che mi ha portato a compiere scelte molto concrete e radicali per poter continuare a far vivere il mio laboratorio, piccolo esempio di un'”altra economia”.

Vi allego il documento che ho scritto, che è pure un’autodenuncia.

In un mondo che

non ci vuole più,……

il mio canto libero…..”

Ala fin de ‘sto ano sèro botega”.

Gli artigiani sono nati con le città, i loro laboratori hanno pulsato nel fitto reticolo dei vicoli e delle strade. Per secoli hanno trasformato la materia prima, fosse argilla, cuoio, giunco, metallo o legno, hanno fornito servizi di ogni specie. Hanno regalato suoni e rumori, profumi e fetori, fumi e bagliori. Hanno scandito il tempo, le loro pause hanno animato osterie e bar. Nel bene e nel male hanno fornito un’anima alla città, spesso chiusa da possenti ed invalicabili mura a sua difesa.

Da quarant’anni a questa parte gli artigiani sono stati espulsi dai centri storici e poi espulsi anche dai quartieri. Molti sono spariti, alcuni si sono adattati nelle anonime zone artigianali ed industriali, completamente avulse e ai margini della vita dei cittadini abitanti. In tanti hanno cercato di sopravvivere collegandosi e facendosi trainare dal cosiddetto indotto industriale, hanno dato vita a veri e propri “ distretti”, hanno cercato la maniera di agganciarsi alla grande distribuzione…, oggi possiamo dire che gli artigiani sono una categoria in via di estinzione. Il Panda, animale famoso per essere diventato il simbolo del WWF, si ciba esclusivamente di bamboo. Dal momento in cui la deforestazione selvaggia gli ha prima limitato e poi compresso inesorabilmente il suo habitat naturale, la sua specie è andata via via estinguendosi. Se non c’è più bamboo, non ci sarà più neanche il Panda. Qualche esemplare si è miracolosamente salvato, ed è esposto come attrazione al pubblico degli zoo, quasi come una reliquia. Anche gli artigiani a volte sono chiamati dalle amministrazioni pubbliche a mettersi in mostra, durante le fiere o alle sagre, magari con improvvisati costumi medioevali…, che tristezza!

Oggi la polis assiste, attonita e immobile, all’estinzione dei suoi artigiani. Può farne a meno, si adatta, si arrangia con l’IKEA e con LEROY MERLIN. Ma io mi domando: la società è cosciente di questa scelta? Sa cosa lascia e in che direzione la portano queste scelte? Queste sono scelte di senso o rappresentano invece la resa ad una logica di mercato che ha inaridito la nostra umanità, creando nuove patologie sociali?

L’ISTAT oggi ci informa che in Italia ci sono dieci milioni di poveri e che per circa la metà dei giovani non c’è prospettiva di lavoro: sono questi gli effetti collaterali delle scelte di progresso, di sviluppo e di crescita illimitata democraticamente decise?

Sono artigiano da trentadue anni, lavoro il legno, lo trasformo in oggetti d’uso funzionali ad un vivere individuale e sociale più comodo, più efficiente, tendenzialmente compatibile con l’ambiente in cui vengono inseriti. Ho una bottega-laboratorio extra-moenia, appena fuori le mura di Verona, in un quartiere popolare denominato Borgo Venezia. Da alcuni anni la mia attività dal punto di vista strettamente economico non sta più in piedi. Non soltanto non mi fornisce più un reddito adeguato, ma, per mantenere a galla la baracca, ho dovuto andare a debito. Alcuni sapienti mi hanno detto chiaramente che non sono stato in grado di adattarmi alle modificazioni della società, todo cambia, devo farmene una ragione. Ed è così che io oggi sono diventato un disadattato. In verità lo sono da almeno dieci-quindici anni, da quando cioè ho intuito che “uno scoglio non può arginare il mare”, ma ho deciso che essere scoglio era la cosa che più si adattava alla mia identità e questo poteva diventare il mio particolare e specifico contributo al vivere sociale. La falegnameria come trincea resistenziale, aperta a tutti i disadattati, gli emarginati, gli espulsi dal mondo del lavoro, il cascame del sistema. Hanno lavorato con me ex-tossici, malati psichici, ex-carcerati, zingari, minori in crisi scolastica, rifugiati, lavoratori in nero, disoccupati che non sapevano più dove appoggiarsi, pensionati che con la “minima” altrimenti non arrivano alla fine del mese, ecc. La falegnameria si è trasformata in un centro di ascolto e di accoglienza, di condivisione delle difficoltà che la crisi economica ha moltiplicato. Durante un colloquio con uno psicologo che lavorava presso un Centro di Salute Mentale, che tramite i servizi sociali mi aveva appoggiato un “caso”, questo mi disse: 10-100-1000 laboratori come il suo, diffusi sul territorio, allora potremmo veramente affrontare in maniera diversa il diffuso disagio psichico. Poi lo psicologo è andato in pensione ed i nuovi dirigenti hanno deciso di interrompere il servizio.

Ci sono terapie che si propongono di adattare l’individuo ad una società che genera malessere e così si finisce per generare ulteriore malessere nell’individuo e nella società.

Il passaggio dall’essere un disadattato nella società odierna, ad essere anche un “fuorilegge” è quasi consequenziale. Per esempio, io ho socializzato l’uso dei miei macchinari. Il che vuol dire che presto le mie attrezzature a colleghi che non hanno più la loro bottega, hanno già dovuto chiudere, ma pur sempre devono lavorare per vivere. E’ la cosiddetta economia sommersa, economia di sopravvivenza, economia di reciprocità (se tu mi aiuti, io ti do una mano). Questa economia, pur essendo molto diffusa, non è riconosciuta come corretta e spesso è facilmente stigmatizzata con la formula “lavoro nero”. Ovviamente sfugge a tutte le regole del lavoro codificato ed anche a quelle del fisco. Conosco molto bene le ragioni che sostengono il cosiddetto patto sociale e le sue regole: sono validissime per chi può permettersi di rispettarle. Ma quando le regole emarginano, escludono, tolgono la dignità, ostracizzano e condannano proprio i più deboli, quelli che non ce la fanno, allora è bene interrogarsi se sia bene obbedire ciecamente o dichiarare pubblicamente la propria volontà di trasgredire regolamenti e leggi che lasciano dietro di sé una scia insopportabile di derelitti sociali. Bisogna prendersi delle responsabilità, ma io credo che non sia giusto chiedere di pagare le tasse a chi fa una maledetta fatica a mettere insieme un pranzo con una cena e magari ha anche i figli da mandare a scuola. Questo Stato chiede ad un artigiano che guadagna diecimila euro netti, di versarne il 56% nelle casse dell’erario, più tutte le cosiddette imposte indirette: ci vuole un bel coraggio ad applicare certe regole.

Nell’antica Grecia il dio simbolo venerato a protezione degli artigiani era Efesto. Era un fabbro. Nell’iconografia classica è sempre ritratto con il martello in mano accanto al suo incudine. La sua abilità a trasformare con il fuoco il metallo era ovunque riconosciuta. Ma era un dio brutto, deforme, sciancato, zoppo e spesso sporco della materia che divinamente lavorava. Era stato ripudiato da sua madre stessa e da tutta la comunità degli dei: Zeus lo espulse dall’Olimpo condannandolo a ruzzolare giù dal monte sacro per sette giorni e sette notti. A lui sono attribuite opere mitiche, armature invincibili, carri magici, ed è proprio nella sua fucina che Prometeo rubò il fuoco consegnandolo con tutti i suoi segreti agli umani. Gli dei infine furono costretti a richiamarlo e a riammetterlo nell’Olimpo, perché proprio non potevano farne a meno della sua abilità. Efesto rifiutò sdegnosamente, non lo meritavano. Ci pensò Dioniso che, conoscendo la natura dell’artigiano, lo ubriacò e, caricatolo sul dorso di un mulo, lo riportò definitivamente al cospetto degli dei.

Io sogno una città che richiami i suoi artigiani, che riconosca loro un ruolo che va oltre la ristretta capacità produttiva, che li investa di una responsabilità relazionale solidale e fraterna.

L’Homo oeconomicus, che riduce tutto a merce, che traduce tutto in denaro, che fa i conti sempre con il dare e l’avere, che ha come obiettivo primario la crescita del PIL, non può soddisfare la nostra humanitas. Dobbiamo al più presto inventarci qualcosa che mantenga intatta la ricerca di un senso e scherzi con l’economia.

Vince

Ho scritto questo documento alcuni mesi fa. Da allora mi sono dato da fare per riuscire a cambiare l’assetto societario della mia falegnameria. Ho incontrato diversi consulenti del lavoro, commercialisti e i “tecnici” di diverse organizzazioni che regolarizzano, dandogli una veste giuridica, diverse attività nel vasto campo del sociale. Tutti hanno dimostrato un interesse sincero e mi hanno riconosciuto una stupita originalità per quel che concerne l’attività del mio laboratorio.

Alcuni tra questi mi hanno trasmesso una certa incoraggiante solidarietà, tutti hanno però concordato sul fatto che, stando così le cose, sono completamente “fuori dalle regole”, sia dal punto di vista amministrativo che fiscale, oltre che perseguibile penalmente dal punto di vista delle norme che pianificano la sicurezza sul posto di lavoro.

Le ipotesi di regolarizzazione che abbiamo valutato, che sono poi quelle contemplate dall’attuale legislazione del mercato del lavoro, sono state diverse: vanno dal qualificarsi come “Impresa sociale”, secondo la legge155 con riferimento al Decreto 460/97, oppure costituirsi come “Associazione d’impresa”, mettendo a disposizione le attrezzature tramite la formula del “comodato d’uso gratuito”, fino alla costituzione di una vera e propria cooperativa di lavoro. Tutte queste soluzioni hanno un costo economico, di sola gestione, notevole, anche se differenziato a seconda della scelta. Attualmente, con il fatturato che riusciamo a fare, questi costi sono praticamente insostenibili se sommati agli altri costi fissi.

In questo mio peregrinare, tra una consulenza e l’altra, è riemersa con evidenza la domanda: sono le regole che devono aiutare, supportare, comicizzare, incoraggiare nuove forme di lavoro e quindi “un’altra economia”, oppure è chi lavora che deve scavezzacollarsi per rientrare, anche solo virtualmente, nel dedalo delle norme, per “pararsi il culo”, inventandosi veri e propri escamotages che forzino le rigidità dei codici, affinchè qualsiasi autorità di controllo abbia il suo contentino per appigliarsi a questo e per lasciarti “onestamente in pace”?

Ho toccato con mano l’ipocrisia sfacciata di questo sistema e la complicità che richiede ed impone. Un mondo di “trasgressori ligi alle regole”, di “atei devoti alle leggi”. E’ vincente, o semplicemente si mantiene a galla, chi si infila in certi interstizi che la legge di volta in volta lascia scoperti, tra acrobazie contabili di facciata e figure lavorative che decretano la precarietà come un valore della flessibilità necessaria alla competitività…, che tristezza!!

Anche tutto il dibattito intorno al famoso JOBS ACT a me è sembrato governato dalla schizofrenia( si dice una cosa e poi se ne fa un’altra), o addirittura dalla menzogna che tenta di travisare la realtà.

La metafora dell’orchestrina che suonava sul Titanic mi sembra molto azzeccata: hai avuto il privilegio di imbarcarti, ti si è dato uno spartito, hai una funzione importante di intrattenimento, concentrati sulla tua musica, non alzare lo sguardo, non interessarti del motore, del vapore, della sua direzione, dell’oceano che ci circonda, tanto più astieniti dal “gufare” su scenari drammatici, guarda al massimo al ghiaccio che si scioglie nel bicchiere del tuo drink… .

Operativamente e molto concretamente la nostra falegnameria da gennaio 2015 si dichiara “in stato di agitazione” alla ricerca comunque di ­­­­­­­­­­regole che la comprendano. Chi ci visiterà la troverà okkupata da persone che hanno semplicemente voglia di lavorare mettendosi in relazione, tramite i propri servizi e manufatti, con i bisogni primari che la lavorazione e la trasformazione di una materia prima come il legno può assolvere.

L’etica del bisogno viene prima dell’etica del dovere e della legge.

Qualsiasi istituzione, che contenga in sé profonde patologie e contraddizioni, per quanto forte sia, è consapevole che il pericolo maggiore che la minaccia è la disobbedienza dei suoi adepti e dei suoi funzionari, se tale disobbedienza è disaccordo e protesta proprio nei confronti delle contraddizioni e delle patologie che l’istituzione contiene e consente. Allora, e in tal caso, la disobbedienza non solo è “legittimata” e ben giustificata, ma , soprattutto, è assolutamente necessaria per chi voglia vivere con dignità e rispetto per se stesso e per gli altri. Qualsiasi sistema sopporta le proteste, le denunce, l’impopolarità. Quello che non tollera è la disobbedienza di coloro che antepongono i bisogni di quanti soffrono(per qualsiasi motivo) ai doveri che il sistema stesso impone loro. Ogni sistema, infatti, si sostiene sulla sottomissione di quanti fanno della mistica della sottomissione il proprio codice di moralità e progetto di vita.

D’altra parte, non dimentichiamo che il dovere è l’espressione concreta della nostra relazione di dipendenza con chi è sopra di noi, poiché è la risposta obbediente e sottomessa all’autorità, al potere, che determina come bisogna comportarsi e decide cosa bisogna fare e non fare. Al contrario, il bisogno è l’espressione concreta della nostra relazione di parità con chi è accanto a noi, poiché è la risposta libera e liberatrice alla carenza, alla debolezza di chi, proprio perché è carente e si sente debole, soffre e si sente debole, soffre e si sente incapace di uscire da solo dalla propria situazione” (Josè Maria Castillo, in Vittime del peccato)

In principio era il verbo, adesso il verbo si è fatto carne! Buon Natale e auguri per il 2015.

Vincenzo Rocca

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